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NIGRA: la parola ad emancipare l’identità

“A piedi nudi” è un nuovo disco che suona rock senza fare il verso ai tanti cliché e senza rincorrere chissà quale futuro. I Nigra vano a Catania da Daniele Grasso che tanto ha fatto di rock e di cantautori nella sua Dcave Records. Il suono dolce, mai aggressivo neanche quando “fa il verso” ai CCCP con un brano come “In Basso”, sembra farsi accomodante quando invece la parola, declamata come dicono loro, a guisa di unica soluzione di mediazione, usa il romantico modo di fare allegoria dentro melodie che in fondo sanno sempre di “Pop”. La contestazione? Forse direi più la critica, la disamina, quel certo modo di pensare a valori ormai troppo utopici di una società in perenne competizione e declino.

“Io suono chi sono io”. Quanto avete posto le basi dentro il concetto di emancipazione personale?
È stato il punto di partenza. Io suono chi sono io per noi non è uno slogan: è una presa di posizione, una specie di autodifesa contro tutto ciò che ti vuole definire da fuori. Siamo cresciuti in un contesto dove spesso ti dicono chi devi essere, che forma prendere, che ruolo ricoprire. Suonare è il nostro modo di liberarci da queste aspettative. Il disco nasce proprio da questo: dal desiderio di non dover chiedere il permesso a nessuno per esistere.

Da musicisti come vi rapportate a una società che misura tutto in numeri e trofei?
Malissimo, ma ci conviviamo. Viviamo in un tempo dove se non esibisci qualcosa — followers, views, premi — allora sembra che non stai facendo nulla. Noi invece proviamo a stare sull’altro lato: quello del peso specifico, non del conteggio. L’unica “metrica” che ci interessa è se una canzone lascia un segno, se fa vibrare qualcuno. Il resto è contabilità, e la contabilità non racconta niente dell’anima.

Le liriche di “A piedi nudi” sono quotidiane, dirette, poco filtrate. È una scelta precisa?
Assolutamente sì. Non volevamo scrivere per stupire o per sembrare complessi. Volevamo scrivere per riconoscersi. Il linguaggio semplice non è banalità: è un atto di sincerità. Le parole del disco sono quelle che useremmo in un bar, davanti a un amico, o mentre si torna a casa la sera. La vita vera sta lì, non nelle metafore complicate. “A piedi nudi” è un disco “parlato”, non proclamato.

Arte e musica hanno ancora il potere di contaminare le coscienze?
Sì, ma non come prima. Non nel senso epico, da rivoluzione collettiva. Oggi la musica ha un potere più intimo, più lento. Ti entra addosso senza che te ne accorgi, ti cambia mezzo millimetro alla volta.
E quel mezzo millimetro, dentro una persona, può fare la differenza. Noi ci crediamo ancora: la musica non cambia il mondo, ma cambia chi la ascolta — e da lì, forse, qualcosa si muove.

“Salgo su questo palco e butto tutto fuori”: quindi l’arte è liberazione personale più che missione politica?
Per noi sì. La politica è troppo larga, troppo rumorosa. La liberazione invece è un fatto privato, fisico: è salire sul palco e lasciare che tutto ciò che hai addosso ti attraversi. Non abbiamo la presunzione di guidare nessuno. La nostra “missione”, se esiste, è non trattenere niente, restare veri. Se questa sincerità parla anche a livello sociale, bene. Ma nasce sempre da dentro, non dal voler educare gli altri.

“Sei qui” sembra diversa dal resto del disco: mix, pasta sonora, volume… è voluto?
Sì, è voluto. “Sei qui” è una stanza diversa della stessa casa. Il disco è molto corporeo, sporco, viscerale; “Sei qui” invece ha una fragilità luminosa, quasi sospesa. Anche nel mix abbiamo voluto creare uno spazio più intimo, meno stratificato, come se la voce avesse più aria intorno. È l’unico momento del disco in cui ci concediamo di respirare invece di camminare sul selciato. Per questo sembra diversa: lo è, e doveva esserlo.

Written by Paolo Tocco

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