Allegorie e realismi dettagliati. Chissà poi queste visioni quanto siano lontane dal realizzarsi… Francesco Paolo Somma (voce, autore dei testi, compositore e che raggiungiamo per questa intervista) e Cris Pellecchia (bassista, compositore e arrangiatore dei brani) ai quali poi si aggiunge Gianfranco Balzano in qualità di live producer e sound engineer, sono i NoIndex, formazione napoletana che ci regala un disco altamente curato come “3024”: la scelta delle parole come quella dei suoni non sono meno alle direzioni visive che ci stanno arrivando dalla rete. Un concept album che si dipana dentro video ottimamente realizzati a guisa di episodi di una serie tv. O almeno questo è quello che mi arriva. Siamo nel futuro… con ampi rimandi al rock apocalittico berlinese (altre sensazioni mie personali) dentro cui ritrovare scampoli di codice genetico pop al quale saremo sempre assuefatti.
Che rapporto avete con la parola? Perché con la visione vedo che siete legati a doppio nodo…
La parola, per me, è un atto sacro. Prima ancora della musica, delle immagini, delle tecnologie che utilizziamo, c’è sempre un’idea che nasce da una parola. Una parola che scava, che si interroga. Viviamo in un’epoca in cui le parole vengono consumate più che comprese, svuotate del loro significato, ipersemplificate. E invece io credo che la parola possa ancora essere un luogo di rivelazione. In 3024, ogni testo è un tentativo di restituire peso al linguaggio, di ridare consistenza all’emozione. Le parole che uso non descrivono semplicemente, ma cercano di ricordare. Sono archeologia della coscienza, schegge di qualcosa che sta per essere dimenticato. E in questo, la visione e il suono non fanno altro che amplificare, dare corpo e profondità a quel nucleo fragile che nasce dalla scrittura.
Per voi la narrazione deve essere esplicita o deve lasciare qualche antro di personale oscurità?
La narrazione non è mai un monologo. È sempre un incontro. Se io, come autore, racconto tutto, non lascio spazio a chi ascolta. Noi cerchiamo di tracciare dei percorsi narrativi che abbiano una loro coerenza, ma che non chiudano mai le porte. 3024 è una storia, ma è anche una visione, un ecosistema aperto. Nei videoclip, nei testi, nei visual, ci sono linee narrative che si intrecciano, che si riflettono a vicenda, ma che non si spiegano mai del tutto. E questa “zona d’ombra” non è solo voluta, è necessaria. Perché è lì che si crea l’empatia. È lì che chi guarda o ascolta trova uno spazio per sé, per le sue domande. La narrazione non deve essere un recinto. Deve essere una soglia.
Perché secondo voi il futuro è sempre privo di umanità?
Forse perché ci stiamo abituando a un presente che anestetizza. Il futuro che immaginiamo in 3024 non è un’ipotesi fantascientifica. È un’estensione lucida e spietata di alcune tendenze che già oggi ci attraversano. La delega continua di ogni scelta all’algoritmo. La ricerca di efficienza a scapito della complessità emotiva. L’illusione che la sofferenza vada eliminata, piuttosto che attraversata. In un mondo che ci chiede di essere performanti, misurabili, prevedibili, cosa resta della parte non quantificabile dell’essere umano? 3024 non è una profezia. È un’allerta. Una riflessione su dove potremmo finire se smettiamo di considerare l’imprevedibilità e la fragilità come parti fondamentali della nostra umanità.
Il vostro suono? Quanto deve all’uomo e quanto alle macchine? Domanda inevitabile direi…
Il nostro suono vive in quello spazio di tensione. Le macchine ci affascinano perché sono potenti, perché ci offrono possibilità nuove, paesaggi sonori che solo vent’anni fa erano impensabili. Ma la macchina, da sola, è cieca. Il suono nasce quando quella potenza viene attraversata da un’intenzione, da un’urgenza umana. Nella produzione usiamo sintetizzatori, software, glitch, ambientazioni digitali… ma il cuore di tutto resta un sentimento che non è imitabile. È per questo che spesso ci piace sovrapporre voci grezze, strumenti acustici, rumori ambientali. Perché cerchiamo un suono che non sia perfetto, ma vero. E anche l’errore, nel nostro lavoro, ha un valore. È l’impronta digitale dell’anima.
Anche questi video sono frutto delle macchine o sbaglio? Esisterà una dimensione corale dunque di corto-metraggio alla fine?
Sì, i video nascono anche dalle macchine. Usiamo intelligenze artificiali come Midjourney per generare frame visivi e Runway per l’animazione video. Ma nessuna di queste immagini è lasciata al caso. Ogni scena è pensata, scritta, costruita con una sceneggiatura precisa, con uno storyboard. Io stesso mi occupo del montaggio, della direzione artistica, della scrittura dei voice-over, realizzati con ElevenLabs. Sono strumenti, non autori. E la visione resta profondamente umana. Il nostro obiettivo è quello di arrivare a un’opera narrativa più ampia, che unisca i videoclip in un racconto unico, in un’opera filmica completa. Un cortometraggio, forse, o qualcosa che superi anche quella forma. Ma sempre nel segno di un’alleanza tra l’intelligenza artificiale e l’intelligenza emotiva. La tecnologia, da sola, è muta. Sta a noi farla parlare.



