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Giorgio Conte – L’intervista

giorgio conte @ la claque-genova-I-2009

“per te / io sono come una santa /Caro amore / non sono Maddalena…” cantano gli spettatori in coro, accompagnando Giorgio Conte alla fine del concerto che, grazie alla sua coinvolgente simpatia, si trasforma come sempre in una festa collettiva.
Ma che c’entra Giorgio Conte con Rosanna Fratello? C’entra eccome, perché è proprio lui l’autore di “Non sono Maddalena”; come di tante altre canzoni, portate al successo da Francesco Baccini, Fausto Leali, Mina, Ornella Vanoni, Mia Martini, Celentano, Rossana Casale, Gipo Farassino, anche a quattro mani col fratello Paolo.
“La coppia più bella del mondo è nostra” ricorda Giorgio. “Il refrain originale però era un altro: A noi ci piace soltanto la donna, altro che far la protesta, fa mal la testa, fa mal la testa, la donna invece no che non fa mal!”.
Giorgio Conte, astigiano, ha condiviso con Paolo la passione per il jazz, gli studi di giurisprudenza e la professione di avvocato, nonché l’abbandono della toga per dedicarsi inter amentealla musica, oltre che alla poesia e alla narrativa. Insieme hanno firmato capolavori come “La Topolino amaranto” e “Una giornata al mare”, musica di Giorgio e parole di Paolo; canzoni in cui scorre, sotto l’orecchiabilità del motivo, una forza evocativa struggente. Le atmosfere di Giorgio Conte, infatti, sono piacevolmente anni Cinquanta: parlano di giostre in piazza, dei giorni dell’adolescenza, scanditi dalle campanelle della scuola e delle biciclette, finalmente, d’estate (“Con la mia Oryx facevo la salita di via Gioberti da seduto, adesso smonto anche se ho il cambio a 24 rapporti…”); di uomini soli al ristorante, ognuno con un giornale per nascondere il viso e la tristezza; dell’atmosfera fumosa dei night, di certi caffè storici di Asti dove ti chiamano per nome dandoti del lei. Anche le donne delle sue canzoni sono un modello anni Cinquanta: una Rita Hayworth che sorride dai finestrini di un camion; una Marina Vlady, “balia ideale, zia ideale, infermiera ideale, prima volta ideale, maestra ideale”,ovvero la summa di tutti i tipi di donna vagheggiati dall’immaginario maschile; bionde procaci e capricciose che “fanno fare un figuron” (“Avevi tutto per piacer / gambe sottili, un bel seder / occhioni azzurri, quasi blu / un seno enorme, un viso d’angelo, tu”), che prendono per la gola, che danzano inafferrabili nei sogni (“Stringimi forte al cuore / balla con me”) e quasi sempre abbandonano il protagonista. “Già, sorride Giorgio, i miei temi principali sono il cibo e l’addio”. Un addio magari non ancora avvenuto, ma è questione di pochissimo… (“Quando te ne andrai / e so che te ne andrai / come sarà l’addio che mi confezionerai?”, si chiede rassegnato il protagonista di “Aria, terra e mare”): situazioni drammatiche di delusione, di nostalgia, che l’ironia naturale di Giorgio riesce a stemperare con una irresistibile vena frizzante, alleggerendole con un sorriso. Così come, al contrario, lo chansonnier sa trasformare eventi minimi in storie cariche di significato, addirittura in piccole sceneggiature che vedono protagonisti una domenica allo stadio, o un arredatore che diventa confidente sentimentale e non fa che aggravare la solitudine. O, appunto, il cibo, come i cannelloni o l’erba di San Pietro, “una personalità forte, che connota da sola la frittata di Pasquetta”, evocatrice di sogni e d’infanzia, casalinga versione delle madeleines proustiane. “Il cibo è croce e delizia della mia vita di eterno aspirante longilineo”, confessa l’artista. “Ho attaccato sul frigo un frammento di Epicuro, ‘Tutto trabocca di piacere il corpo mio nutrendosi di pane e acqua, sputo sulle delizie della tavola, non tanto per se stesse, ma per tutti i disturbi che si tirano dietro’… ma è tutto inutile, quando ti piacciono quei bei piatti di una volta, come l’insalata russa un po’ grossière”. Un gusto ereditato dalle tradizioni borghesi della sua infanzia, quando alla domenica la famiglia Conte, dopo la messa di mezzogiorno, andava a comprare le paste da Giordanino per il pranzo dal nonno: “Il menù era sempre uguale: l’insalata russa, gli agnolotti che come la Irma non li faceva nessuno, le cotolette panate, e poi, finalmente, il pacchetto delle paste, che il nonno scartava in un silenzio gonfio di attesa: un’attesa esasperante, perché il nastrino non si tagliava, ma si slegava e si arrotolava in matassina da riporre in un cassetto; la carta non si strappava, ma si ripiegava con cura. Anche le paste erano sempre uguali: una fila di cannoncini, una di petits fours, una di bignole, una di funghetti… Finché, una domenica, apparve una pasta nuova, che lasciava immaginare un ricco ripieno di crema e panna in contrasto con la glassa caramellata. La pregustavo con l’acquolina in bocca, pronto a ghermirla, quando un ospite prima di me l’acciuffò con voluttà, e io gridai, N’asident, a l’han barbamla!” La famiglia Conte era completata dalla cameriera Ersilia, una bellissima donna scura che portava a spasso i rampolli Conte in carrozzine “che parevano Rolls-Royce” e a cui il ma- rito lontano scriveva lettere in stile dannunziano, concludendole con:
“Bacio il tuo eburneo seno”.

Ma come mai la giurisprudenza e la musica come trait d’union dei ragazzi Conte?
“Nostro padre, integerrimo notaio, era anche un appassionato musicista che si divertiva molto a improvvisare al piano. Aveva il tocco morbido dei pianisti di allora, come Alberto
Semprini, ed era richiestissimo alle feste in casa e nei circoli. In quanto a legge, veramente io avrei voluto diventare medico; avevo un’idea romantica della medicina, che contrapponevo al pragmatismo dei notai. Mi ero invaghito del dottor Schweitzer, e mi immaginavo come lui nelle foreste in camice bianco a suonare all’organo fughe di Bach. Poi però, quando vidi il primo cadavere,
mi impressionai tanto che decisi di cambiare”.
Intanto i ragazzi Conte si davanocal jazz e allo swing, con la band che porterà poi il nome di “Paul Conte Quartet”. Paolo, solitario e misterioso, era chiamato allora “il canadese”, per via di un cappotto col colletto di opossum. Con l’amichevole cordialità con cui coinvolge il suo pubblico (che Giorgio sia l’anima gioiosa dei due, in contrapposizione a quella umbratile di Paolo?) Giorgio racconta degli esordi in una band che provava dixieland e swing in lavanderie e cantine gelate, e poi ai tè danzanti dell’Usma (Unione Studenti Medi Astigiani), finché arriva il primo contratto per i due fratelli, che il papà notaio, dopo un silenzio tombale e sorrisetti poco rassicuranti, boccia come “contratto capestro”: quello col clan Celentano, che invece aprirà la strada al successo musicale, fino all’exploit di “Deborah”, lanciata nel ‘69 da Fausto Leali.

“Dopo Deborah ricevemmo richieste da tanti artisti, anche da Claudio Villa, il cui nome non pronunciavamo mai senza imbarazzo. Andammo all’appuntamento con lui a Milano; Claudio Villa, arrivato da Roma in moto, si aprì la tuta sul petto villoso, centaurico nel suo metro e cinquanta. Noi due ci sentimmo sprofondare. Io volevo andarmene, ma Paolo, ben determinato, si sedette al
piano e improvvisò di fronte al reuccio, che si aspettava “Binario”, una musica indiavolata. Poi, nel silenzio, ce la filammo”
. Giorgio era influenzato, in quel periodo, dai cantautori francesi, che profumavano di novità e si andavano ad ascoltare nelle cave parigine, e in particolare da Georges Brassens, lo chansonnier al quale viene più avvicinato: forse non è un caso che Giorgio, radici piemontesi e inclinazione cosmopolita, sia adorato soprattutto nei Paesi francofoni (ma anche in Australia, in Svizzera, in Austria, dove, al Jazz Sommer Festival di Graz, è l’unico ospite italiano al fianco di artisti come Al Jarreau e Dee Dee Bridgewater), e sia ormai una presenza fissa al festival canadese della canzone francese.

Veramente posso vantare due record, confessa con autoironia, 1200 spettatori paganti allo Spectrum di Montreal, e un altro in un paesino in alta Bretagna, noto per il porticciolo e le coltivazioni di carciofi, dove dovevamo esibirci per una matinée alle16. In quel fantastico teatro con due volute di balconate e 400 poltroncine blu lavanda la direttrice, che pareva uscita da un quadro impressionista, ci offrì un catering a base di coquillage e salmone che restò memorabile nella mia band, che magari transige sul cachet, ma non sul rinfresco. Ma alle 15,30 non si era ancora presentato nessuno spettatore. Finalmente alle 16 arrivò un coltivatore del posto vestito a festa, che mi venne incontro con fare ossequioso e stringendomi la mano mi disse: “Bonjour, Monsieur Conté, je suis le spectateur”! Solo allora realizzammo che era la domenica delle elezioni del presidente francese. E poi c’era un cielo così terso, azzurro, in una zona dove. “c’è il sole rare volte, il resto è pioggia che ci bagna”, come dice l’altro poeta.”

Sorrido all’elegante allusione al fratello. “Arrivare dopo Paolo è come arrivare dopo Attila”, scherza Giorgio. Il suo cognome, e il rapporto tra i due Conte, è spesso motivo di equivoci e divertenti confusioni. Racconta Giorgio delle anziane proprietarie di un bed & breakfast del sud, nel quale aveva soggiornato, che lo mandarono a salutare tramite un amico di Asti “E ci saluti tanto il fratello di Carlo Conti!”. E poi: “Una volta una barista, vedendomi entrare nel locale, sussurrò alla collega ‘Quello è il figlio di Paolo Conte’ e l’altra, rincarando la dose con aria saputa ‘Sì, e di Ornella Vanoni!’”.
Le cose in futuro si complicheranno anche di più: Giorgio è infatti padre di Lucilla e di Tommaso, anche lui straordinario chitarrista e futuro notaio…
Aggiunge Giorgio: “La misura del genio di Paolo sta tutta nel commento di un cameriere che ama ascoltare le sue canzoni: Jeu capì gnente ma ul’è vnume ‘l magon! Invece, quel cameriere aveva capito tutto: quando una musica è bella parla a tutti, indipendentemente dalle variabili individuali e arriva all’anima. È questa l’arte”. Così come è arte rievocare una partenza per il mare in un racconto-canzone che non può lasciare indifferente chi è stato ragazzo negli anni in cui raggiungere la Liguria rappresentava un viaggio periglioso di ore e ore, con soste frequenti e a velocità di crociera: “Mio padre, da bravo uomo di legge, era disposto a sorpassare solo in casi di eccezionale urgenza e necessità”. Un viaggio preceduto da un’accurata preparazione, col capo famiglia in maniche di camicia e sigaretta in bocca che controllava l’auto e la sistemazione dei bagagli, che non dovevano coprire lo specchietto retrovisore, e che, comunque “considerava la vacanza una tortura e avrebbe preferito restarsene a casa nel suo studio”, anziché partire per il lungo viaggio verso quel mare affascinante ma pericoloso, così vicino, ma così lontano.
Così come è arte la seduzione di una voce un po’ arrochita che canta senza paura l’incanto di innamorarsi ancora, ed è arte l’ultimo delizioso spettacolo “È questa l’ora antica torinese”, col quale Giorgio rende un omaggio alla musicalità dei versi di Guido Gozzano. “Mi spiace non essere vissuto ai suoi tempi: io e Guido saremmo stati grandi amici”: come lui, anche Giorgio è cantore di piccole, buone cose “di pessimo gusto”, un avvocato piemontese che può permettersi di non appartenere a mode e correnti, perché il suo fascino sta nell’essere semplicemente se stesso; un signore colto e ironico che di certo non sentiremo mai gridare nei salotti televisivi.

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Biografia di Alessandro Calzetta

Alessandro Calzetta (Roma, 1971) è un appassionato di musica e canzone d’autore, direttore del web magazine Bravonline.it, grafico pubblicitario e webdesigner di professione. Fa parte della giuria del Club Tenco.
e.mail: info@alessandrocalzetta.it

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