Sono in corso le votazioni per le Targhe Tenco, un premio assegnato da una giuria di giornalisti e critici musicali, composta da quasi 250 persone, grazie alla volontà della Direzione artistica del Club Tenco. È questo il momento della musica d’autore e sono in tanti a chiedersi se alla fine il movimento che ruota intorno a questa competizione interessi e scaldi solo gli animi di artisti, giornalisti e operatori culturali, nella pressoché totale indifferenza del “mondo di fuori”.
E c’è ancora chi si chiede quale sia lo stato di salute della musica di qualità in Italia, se vi sia ancora qualcuno che ha cose da dire e da raccontare o se con la fine di quel particolare momento a cui è legata la storia dei grandi cantautori sia tutto un po’ finito: finita la società a cui si rivolgevano, finita la corrispondenza popolare, finita l’ispirazione.
Per quello che conta vorrei dire la mia su entrambe le questioni. Senza avere risposte ma casomai proponendo spunti per eventuali discussioni. Voglio dire la mia perché negli ultimi tre anni ho avuto l’onore di far parte della Commissione che seleziona le liste con i dischi candidabili alle Targhe.
La Commissione è stata pensata dagli organizzatori per selezionare artisticamente il meglio, in mezzo all’infinità della produzione e anche per aiutare al rispetto dei regolamenti.
Tutto questo con la buona volontà dei commissari e del Club Tenco che molto spesso si dimentica essere una associazione di volontari e non una istituzione pubblica. Lo dico perché dal Club e dal suo direttivo si pretende rettitudine, trasparenza, perfezione… quella che magari non si pretende quando si ha a che fare con la burocrazia statale.
Molto spesso mi si rimprovera di essere “di parte” quando si parla di questo Club. Lo ammetto: a volte è vero. Ma se lo si conosce e si tiene conto della passione di chi ne è coinvolto è poi difficile non avere simpatia per gli sforzi che vengono fatti a titolo puramente gratuito e per passione. Come ogni cosa di questo mondo – soprattutto quelle grandi – anche il Tenco è pieno di difetti. Quello che trovo inaccettabile è che venga accusato di malafede. Perché è ingiusto.
E poi non serve a niente. Non aiuta la musica e l’arte. Serve solo ad aprire bocca e a dargli fiato. Fa anche caldo di questi tempi: troppo fiato emana inutile calore.
E vengo ai punti di cui sopra. Li affronto insieme perché secondo me sono legati.
Spesso gli uomini discutono della “fine della Storia”; poi in epoca di crisi – la nostra dura dagli anni Settanta, almeno nella percezione comune – è idea generale e diffusa. Questo accade naturalmente perché non si riesce a immaginare un mondo diverso – anche nelle piccole cose – da quello che abbiamo vissuto, tranne naturalmente trovarcisi dentro: in un mondo nuovo e in pieno mutamento.
Se quindi è evidente che quel mondo che ha visto nascere e prosperare la cosiddetta canzone d’autore è finito e che sono finite le sue ragioni, le sue storie, la sua poetica, il suo modo di raccontare la vita e la crisi, altrettanto evidente è che questo nostro mondo di oggi ha bisogno di raccontare le sue storie, le sue ragioni, la sua poesia. A modo suo.
E lo fa.
Lo fa in tutte le maniere che le possibilità espressive gli consentono. Possibilità espressive che però hanno avuto una espansione di cui non si intravedono i confini, dando la sensazione che tanta diffusione si disperda e non riesca a essere poi colta, compresa e fatta propria da chi dovrebbe fruirne.
Come se tutti scrivessero al vento e nel nostro caso cantassero in un mondo di sordi.
Questa però è solo una percezione, che nasce dalla nostra forma mentale e dal modo in cui abbiamo attraversato questi decenni; la nostra generazione sembra considerare vero ed esistente solo quello che vede o sente attraverso i canali tradizionali, quelli di massima diffusione: televisione, radio, grande stampa cartacea.
Quando guardiamo le Olimpiadi, scopriamo che l’Italia vince medaglie in sport che normalmente ignoriamo. Eppure quelle persone esistono anche durante i quattro anni in cui le abbiamo ignorate. C’è un mondo, una provincia diffusa se volete, in cui accadono milioni di cose interessanti, costruttrive, creative e il fatto che non riescano a passare attraverso i canali tradizionali non significa che non esistano.
Posso testimoniare dopo tre anni di commissione che vale pure per la musica di qualità. Sono stata sommersa di suoni. Ormai chiunque può fare un disco. Non serve nemmeno più un supporto. Basta addirittura solo un buon Mac. Certo che di materiale per l’Ama e la Muraro ce n’è tanto; ma c’è anche tantissimo lavoro artigianale fatto con impegno, con passione e con diligenza e c’è perché l’esigenza di espressione e di raccontare il mondo, quello nostro, così caotico, in crisi di valori, di percezioni, di modelli, è impellente e non può essere fermata dalle difficoltà, dall’impossibilità a diffondere, dalla povertà. La creatività è dell’uomo. Non si può bloccare.
Poi il resto è tutto vero: vera la crisi discografica, la Siae, le Major, i produttori, i locali che non ci sono, i giornali che non ci sono, i soldi che non ci sono per nessuno: per artisti, produttori, distributori, gestori, giornalisti, operatori culturali.
Eppure tutto comunque si muove. Undeground. Fioriscono festival, molti locali anche se a fatica lavorano, i concerti comunque ci sono; e io vedo tanti ragazzi che ascoltano e partecipano, canzoni su Youtube che hanno migliaia di ascolti. Vedo diffusione, nuovi giornali, voglia di fare.
Vedo anche molta voglia di diffondere tutto questo. E vedo anche molta voglia di guadagnarci, che mi pare più che legittimo.
Vedo anche tante inutili lagne e faide ridicole per il nulla. Vedo tanta fatica e difficoltà. Vedo anche il senso di impotenza.
Non so come si possa organizzare tutto questo fermento che vedo.
Ma smettetela di dire che la Storia è finita.
#Andiamo avanti!
#La Storia non è finita