A quattro anni di distanza dall’ultimo album, Francesco De Gregori torna nei negozi di dischi con il nuovo “Pezzi”. Un lavoro cupo e duro, perfetta fotografia della realtà contemporanea dove traspare tutta la violenza e l’incertezza della stabilità dei falsi equilibri cui è sottoposto il pianeta, fino ad apparire, in senso lato, come un concept-album. Un De Gregori piuttosto insolito, chiaro e diretto, con il pessimismo e la disillusione di chi sperava di cambiare il mondo e non c’è riuscito. Mai così dylaniano nelle musiche – nella fase moderna, se non contemporanea di Bob Dylan – e vicino a Leonard Cohen nei testi. Il rock (talvolta con il country, talvolta rock con il blues) è in perfetta sintonia con il tono apocalittico dei testi. Ci sono, infatti, ben quattro canzoni contro la guerra: Numeri da scaricare (“bambini soldato sepolti in piedi”; “è gente come te e me o sono numeri da scaricare?”); Gambadilegno a Parigi – la più poetica dell’album – la storia di un ferito reduce dal Vietnam che va a Parigi per farsi mettere una protesi e, però, sogna Atene, culla della civiltà; Il panorama di Betlemme sulla questione palestinese, in cui con un lampo di genio esprime la condizione dell’oppresso ribelle (“non sono quel tipo di uomo che si arrende senza sparare”); Il vestito del violinista in cui compaiono anche i bambini di Beslan. Su 10 traccie ricorre sei volte la parola “sangue”, sei “treno”, cinque “sale”, tre “fumo”. La band è quella consolidata degli ultimi tour, capitanata dal bassista di vecchia data Guido Guglielminetti (già musicista di Battisti e Fossati) . Il sound rock è eccezionale, travolgente e missato alla perfezione, e scivola benissimo perchè molto meno “sporco” rispetto a quello che dice lo stesso De Gregori. Le pecche, però, esistono: lo studio poco approfondito delle variazioni ritmiche – in tutti i brani la batteria fa la stessa cosa dall’inizio alla fine – e lo spreco del chitarrista Paolo Giovenchi – ci sono, spesso, ripetuti giri d’accordi senza assoli di chitarra o di altro. L’album prende il nome dalla canzone Vai in Africa, Celestino!, in cui il susseguirsi di “pezzi” di diverso genere offre all’uomo una frammentarietà che stordisce – più importanti, forse, i “pezzi di informazione”, oggi tesa più a mascherare che a scoprire – e fa sì che il rifiuto del papa Celestino V divenga un atto umano, molto più che di “viltade” (ha detto De Gregori: «forse, oggi, già chi riesce a non fare il male dovrebbe andare in paradiso»). Con Tempo reale, un rock&blues strepitoso – forse capolavoro dell’album – ascoltiamo il De Gregori più politico mai ascoltato fino ad ora: un ritratto perfetto dell’Italia corrotta e menefreghista (“la Libertà con un chiodo tortura la Democrazia”; “se rubi non muore nessuno e dove il crimine paga”; “piani urbanistici sotto al vulcano”; “tasse pagate dai poveri”; “tutti hanno un prezzo e niente c’ha valore”; “se potessi rinascere ancora preferirei non rinascere qua”). C’è un’angosciante La testa nel secchio dove il “treno” della vita sembra non partire mai e anche canzoni che ricordano la morte recente del padre come Parole a memoria e Passato prossimo (che si aggiudica il più bel verso con “e fu senza saluto il più compiuto addio”). Infine Le lacrime di Nemo – l’esplosione – la fine dove su una melodia e un arrangiamento classici torna il sangue e “l’innocenza di nessuno”. Insomma, un De Gregori ispiratissimo e sicuro di sè, per come compone e come canta. Sciocchi i paragoni col precedente – e bellissimo – “Amore nel pomeriggio”: se in uno c’era molto amore (ma non solo) nel pomeriggio, appunto, qui c’è molto odio in una notte buia da cui De Gregori, come noi, spera di svegliarsi presto.