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Marco Ongaro – Archivio Postumia

Tanto consigliabile quanto bizzarro. E questo disco bizzarro lo è parecchio. Se lo si mette nello stereo le palpebre non potranno fare a meno di assumere un atteggiamento perplesso al cominciare della dodicesima traccia. E non c’è nulla di strano, basta saperne la storia (perfetto specchio del respiro di questo disco: bizzarra). Marco Ongaro, ottimo pianista e vincitore della Targa Tenco 1987 come migliore opera prima, nel 1990 si rivolse al produttore Renato Venturiero dicendo di avere materiale inedito da registrare, ma con l’intenzione di pubblicarlo dopo cinque anni: da qui il titolo scherzoso “Archivio Postumia”, con l’idea di qualcosa che uscisse dopo la morte. Per una serie di circostanze, altro materiale del 1991 sotto il titolo di “Eptalogia – Delle colpe e del perdono” (un vero e proprio concept album) non viene pubblicato. Anziché passare cinque anni ne passano quindici e, nel maggio 2005, i due differenti album vengono pubblicati in un unicum sotto il nome di “Archivio Postumia”. Il bello è che gli album suonano così diversi che l’operazione nel complesso è eccentrica, strana, anormale: e la sua anomalia risulta essere particolarmente interessante. La prima parte del disco è arrangiata dallo stesso Ongaro ed è nettamente superiore all’altra: al partire della prima traccia si sentono delicate carezze dei rullanti alla batteria e un contrabbasso che fa muovere il piedino a ritmi jazzati. Il suono è soft, senza aggiunte fittizie d’elettronica: ciò che s’ascolta è ciò che viene materialmente suonato (cosa a cui Ongaro tiene moltissimo); i testi sono spesso intime confidenze che si muovono sotto l’ala di atmosfere cupe, e non mancano immagini addirittura violente (in senso lato e non). Una canzone obiettivamente superiore è “Non lacrimate le aiuole”, presente anche in una seconda versione cantata da Dodi Moscati – tristemente scomparsa nell’arco dei quindici anni, come il produttore Venturiero -, voce femminile bassa ed intensa, con un ammirevole occhiolino al blues. Il sottoscritto ha un debole per “Il resto mancia”: simbiosi fra musica lenta e parole di un uomo prossimo all’abbandono, di cui è cosciente. La seconda parte, arrangiata da Cicci Santucci – ex trombettista dell’orchestra della Rai -, è suonata egregiamente ma, sicuramente, in modo anacronistico. L’irrefrenabile bisogno di essere alla moda e le influenze negative degli anni ’80 (con l’abuso dell’elettronica) non fanno a meno di presentarsi e, in alcuni casi, hanno effetti disastrosi – come i violini da tastiera in “Demian”. Però il materiale grezzo è indubbiamente buono – tra storie d’amore truci e personaggi che non faticano a ferirsi – e, se proprio vogliamo dirla tutta, “Le donne le amo”, con sovrapposizione di fiati e ritmo incalzante, è decorata al punto giusto. Bellissima “La fame romana” (diciannovesima traccia su venti) che racconta di un periodo piuttosto precario di Ongaro in compagnia di altri artisti e amici del Club Tenco, con un ritmo serrato alla Paolo Conte dei primi tempi e la solita voce calda a dipingere l’atmosfera. Tanti minuti di buona musica, suonata per il piacere di suonare, fuori dalle regole del mercato e sincera. Non so quanto ce ne sia in giro.

ArchivioPost_200Marco Ongaro
Archivio Postumia

Rossodisera – 2005

Biografia di Antonio Piccolo

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