Il 29 marzo ricorre il decimo anniversario della morte di Enzo Jannacci, uno dei grandi cantautori italiani. Per ricordarlo è appena uscito un libro del figlio Paolo e del giornalista Enzo Gentile intitolato “Enzo Jannacci. Ecco tutto qui” (Hoepli editore).
Nato nel 1935 a Milano, Jannacci può essere considerato, insieme a Gino Paoli, il capostipite dei cantautori italiani. Con Paoli nasce la scuola dei cantautori genovesi (anche se vera scuola non è), alla quale appartengono Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Luigi Tenco e Fabrizio De André. Da Jannacci prende invece avvio la scuola milanese con l’amico Giorgio Gaber, di quattro anni più giovane. Jannacci e Gaber a differenza dei genovesi collaborarono molto tra di loro, grazie al forte legame che li univa. Quando morì Gaber, il 1° gennaio 2003, Jannacci disse semplicemente: “Ho perso un fratello”.
Con Gaber già alla fine degli anni ’50 Jannacci compone un duo, i Due Corsari, che si esibisce nei locali milanesi, esperienza che verrà replicata negli anni ’80 con i Ja.Ga. Brothers. Gli anni ’50 a Milano sono il crocevia in cui si intersecano le strade del jazz e del nascente rock and roll. Jannacci in effetti nasce come pianista jazz (ammirava Bud Powell) e in questa veste ha l’onore di suonare a Milano con il quartetto di Kenny Clarke, batterista del Modern Jazz Quartet. Ben presto però il rock ‘n roll prende il sopravvento e così Enzo incontra sulla sua strada Adriano Celentano e Luigi Tenco, al sax, con i quali suonerà anche in Germania.
Ma è soprattutto il nascente cabaret meneghino, con il suo locale simbolo, il Derby, ad attrarre Jannacci, che lì incontra Dario Fo, Beppe Viola, Cochi e Renato, Massimo Boldi, Diego Abatantuono. Gli anni ’60 sono cruciali per Enzo, che nel giro di poco tempo si sposa, si laurea in Medicina, debutta in televisione, arriva al primo posto della hit parade nel ’68 con la sua canzone più celebre “Vengo anch’io. No, tu no”. Jannacci è un tourbillon di attività, idee, progetti, che lo proiettano contemporaneamente in più direzioni: quella del medico (eserciterà scrupolosamente la professione fino alla pensione, prendendo anche una specializzazione negli Stati Uniti), quella di marito e padre (lo diventa nel ’72), quella di cantante, di attore (intraprenderà anche la carriera cinematografica e farà teatro con Gaber in “Aspettando Godot”), di uomo-spettacolo in tv, di tifoso del Milan, di cintura nera di karate. E sempre con quel suo stile inimitabile, con gli alti e bassi della voce, la mimica, la massima partecipazione emotiva a tutto quello che fa. Dice di lui il comico Paolo Rossi, che ha lavorato a lungo con Enzo: “Enzo insegnava volentieri e spingeva verso la follia come necessaria aria di comunicazione”.
Ma lo Jannacci più grande è quello delle canzoni che parlano degli emarginati, dei barboni, degli ultimi, di quelli messi al bando dall’opulenta società milanese del boom economico. Canzoni quasi sempre in dialetto meneghino. Alcuni titoli dicono tutto: “El purtava i scarp del tennis”, “Sei minuti all’alba”, “Ho visto un re”, “Vincenzina e la fabbrica”, “T’ho cumprà i calzett de seta”, “Il palo”, “L’Armando”, “Quelli che…”. Senza dimenticare “Via del campo”, il successo di De André del ‘67, la cui musica fu in seguito accreditata a Jannacci, che l’aveva composta nel ’65 per un’altra sua canzone.

Così scriveva di lui nel ’64 Luciano Bianciardi, l’autore de “La vita agra”: “Vidi bene la faccia spigolosa di questo ragazzo, isolata dalla chitarra, collarone da Pierrot. Cantava una strana serenata, recitando la prima strofa in lingua, ed era la storia dell’innamorato povero e pedone, che cammina avanti e indré sotto la finestra della sua bella, in tutt’altre faccende affaccendata, e alla pena del cuore si somma quella dei piedi, che gli fanno male. Anche il barbone innamorato di Jannacci portava i scarp del tennis, e l’altro, il poveraccio di tanti anni fa capitato nella balera, s’accorge con suo terrore, entrando, che con quegli scarponi non sarà possibile ballare il fox trot”.
Aggiunge Enzo Gentile: “Jannacci nei pezzi da risata aperta, in quelli più caustici, fino ai toni drammatici e un po’ cupi, ama cantare gli emarginati che conservino la dignità e concedano poco al pietismo: ci riesce grazie a un linguaggio unico e inimitato, alle inflessioni della voce e delle espressioni facciali”.
Infine, Giorgio Vittadini ex presidente della Compagnia delle Opere, che parla dell’ultimo Jannacci: “Ci siamo frequentati tantissimo, si mangiava e si vedevano le partite insieme, anche quando era malato: con lui ho capito cosa significa innamorarsi degli esseri umani. Anche pochi mesi prima di morire venne a Rimini, dove era previsto un concerto di Paolo, e, seppur sofferente, gli piacque molto quel tempo da passare insieme. Fino a quando ha potuto si è messo al pianoforte, ha raccontato quelle sue canzoni incredibili, con la solita capacità di commuovere e di sorridere, tra arte, poesia e riflessioni sulla vita. Negli ultimi anni Enzo ha sviluppato una sua propria dimensione spirituale, fuori dai canoni e dalle appartenenze, un’intimità religiosa nella ricerca personale del rapporto con Dio. Il suo era un Gesù che abbracciava i poveracci, una figura ideale per tante delle canzoni che ha scritto”.
Ecco, Jannacci è tutto qui. E scusate se è poco.