Un disco che riporta la parola al centro e la colora, anzi l’arreda con un mestiere artigiano antico… non è un disco dentro cui svetta una produzione eccellente, va detto… ma comunque un lavoro che mette al centro la narrazione. “Alla morte” è il nuovo disco di Francesco Lattanzi, disco che parla di uomini su questa terra, in questa nostra storia, nazioni e rapporti diplomatici… la guerra è un cuore pulsante di tutto il tessuto lirico del disco e su questo fa da padrone il brano “Gli angeli di Horlivka” con il bellissimo video girato in Bielorussia dal regista Dmitrij Dedok.
La parola. Torna importante nella tua canzone. Come l’hai scelta e come l’hai ricamata alle altre?
L’importanza della parola è imprescindibile nelle mie canzoni, proprio perché viviamo in un’epoca in cui spesso l’incapacità di scrivere genera banalità e luoghi comuni mascherati da ermetismo. Forse perché questo chiede il mercato e questo propongono le etichette discografiche il cui unico interesse è vendere e non costruire percorsi artistici legati alla qualità dei testi e della melodia. Senza contare che tra i riferimenti letterari che ho avuto, un posto di rilievo è occupato da Giovanni Pascoli, uno che ha liberato la parola dalle strettoie linguistiche dei suoi predecessori, e simultaneamente ha dato nobiltà alla parola stessa.
Che rapporto hai con il linguaggio popolare che troppo spesso la parola violenta?
Nel mio primo disco (“Turno di notte”) ci sono canzoni che si rifanno al linguaggio popolareggiante attingendo addirittura al mondo delle favole (La volpe restò senza fiato; Bufera nel mondo della musica). Pur scrivendo con un registro linguistico meno alto rispetto a quello usato in altri brani, non si avverte uno scadimento della qualità del testo e neanche credo di essere stato didascalico nella stesura di quelle composizioni. Anzi posso dire di aver trovato più libertà nella scrittura di quei testi (ho amato pochissimo la favolistica da piccolo, preferivo Calvino e Rodari) che nella composizione di testi più impegnati, tipo di composizione sicuramente a me più consona.
E parliamo anche di traduzioni. Nel disco anche due omaggi tradotti in italiano. Opera tua? E nel caso: come hai lavorato alla traduzione? Pensando più al concetto o alla melodia?
Sì, ho tradotto e adattato i testi in questione. E questo è stato, ed è tuttora, quando mi confronto con un testo straniero da tradurre e poi riadattare, il lavoro paradossalmente che mi risulta più agevole. Dico paradossalmente perché scrivere un testo ex novo, dovrebbe essere meno complicato, scrivi quello che l’ispirazione ti suggerisce e porti il discorso dove vuoi. Negli adattamenti di brani stranieri hai dei vincoli precisi. Innanzitutto il testo originale. Cerco di mantenere quanto più possibile la mia versione vicina al testo da tradurre, quantomeno per rispetto verso chi ha scritto quel testo, e curo in modo maniacale anche la parte metrica, cosa non facile per la difficoltà di trovare corrispondenze tra la lingua italiana, che è fondamentalmente piana, con una lingua prettamente monosillabica come l’inglese. Anche per l’arrangiamento, ho pregato Gianni Ferretti e Andrea Mattei che lo hanno curato, di non cercare soluzioni alternative, ma di ripercorrere la strada dell’armonizzazione originale, sia per “Strade di Londra” che per “Vincent e le stelle”
Perché questo legame con la seconda guerra mondiale?
In realtà il legame è con la storia tutta e con questa parte di storia in particolare. Come ho espresso già in altre interviste, sono un occidentale che si è laureato in lingue dell’Europa orientale. La letteratura abbondante che riguarda quei due anni di guerra, con l’esercito italiano impegnato nella campagna di Russia mi ha molto affascinato, rapito e su quell’argomento ho deciso di scrivere tre canzoni presenti in questo disco, oltre agli Angeli, la chiamo così per brevità, anche “Dno dona” (Il fondo del Don) e “La tregua”.
E la tua cultura esterofila quanto ha contaminato questa canzone assai densa di tradizioni nostrane?
Ho due anime, torno a ripetermi, sono nato e cresciuto in un paese gelosissimo della sua occidentalità, e direi in questo senso quasi bigotto, e ho imparato ad apprezzare valori e virtù di civiltà che sono altrettanto gelose e direi anche vanitose della loro orientalità. Fortunatamente ai tempi dell’università non l’ho vissuta come uno scontro, ma come un arricchimento fatto di curiosità. Ed è stato un percorso molto formativo, ma non me ne prendo i meriti, sono stato fortunato piuttosto che bravo.