in

Il lamento del caciocavallo

Ovvero notarelle sulle ultime fatiche artistiche di Peppe Voltarelli

Di Elisabetta Malantrucco

 

L’idea è quella di raccontare le impressioni nate dall’ascolto e dalla lettura delle ultime opere di Peppe Voltarelli – cantautore folk singer crooner attore scrittore aspirante vagabondo da cinema muto e quindi senza punteggiatura come i suoi racconti – autore di un libro e di un disco usciti nei primi mesi dell’anno.

 

Procedendo con ordine non si può che partire dal libro Il caciocavallo di bronzo romanzo cantato e suonato, edito da Stampa Alternativa. Un romanzo chiaramente autobiografico, accompagnato e ispirato da versi di canzoni – e viceversa – che si legge tutto d’un fiato e si ascolta anche un po’, così, in silenzio…

 

Chi scrive ha la convinzione che Peppe Voltarelli sia una vera forza della natura, anzi – per meglio dire – una vera forza dell’arte che la natura piega e proprio per questo l’energia che a volte anche suo e nostro malgrado si crea nelle sue esibizioni dal vivo (che sarebbe riduttivo chiamare semplicemente concerti) è difficilmente riproducibile in un disco confezionato o in un verso scritto.

 

La prosa di Voltarelli è poi senza respiro e senza pause tranne quelle che il fiato costringe a prendere e questo a volte affatica, soprattutto perché non vi è alcuno spazio – come invece dal vivo c’è – per la leggerezza e la soavità e l’allegrezza del bambino che gioca col suo amico immaginario.

 

Perché il caciocavallo di bronzo – all’apparenza il racconto di un monumento mai costruito su un lungomare calabrese – è invece la storia amara di un ritorno e di un abbandono senza soluzioni di continuità; è la storia non tanto di una terra che così narrata appare immota nel ricordo ma anche nelle speranze future – presa da un incantesimo del tempo e dello spazio come nelle favole con le principesse addormentate e i principi rospi – quanto piuttosto è la storia dell’amore impossibile di un uomo fatto prigioniero dall’innamorata fino ad arrivare alla claustrofobia.

 

Peppe Voltarelli racconta pezzi di sé evidenziando la sua ricerca esasperata dell’essenziale, la fuga dal troppo mangiare, dal troppo parlare, dal troppo leggere, dal troppo volere, dal troppo condividere, là dove anche la ‘riconoscenza è un lusso’. Insomma Peppe Voltarelli racconta la sua Calabria, quella dell’infanzia e quella di oggi, le sue speranze e le sue ultime disillusioni, ma a dirlo così appare banale. Non è un libro banale invece. È un libro secco come chi lo ha scritto ed essenziale, amaro fino all’arsura della gola, a tratti disperante. Pieno – come in uno di quei banchetti di nozze del sud detestati dal nostro autore perché stracolmi di rumore e cibo – pieno, dicevo, di sentimenti e struggente malinconia.

 

Sicuramente sarà un buon motivo per i calabresi di litigare: ne facciamo un monumento o lo usiamo come strumento per lamentarci?

Perché adesso qui veniamo all’altra faccia della medaglia voltarelliana: è ora infatti di fare accenno al disco uscito sempre nei primi mesi dell’anno, pubblicato da Otr live, prodotto da Finaz e terzo album da solista, dopo la separazione dal Parto delle nuvole pesanti. Il disco si chiama, giustappunto, Lamentarsi come ipotesi.

 

E lo dice Voltarelli stesso nel brano che dà il titolo all’album: il lamento è un’arte nobile che si impara per non sciogliersi nelle strade dei convinti nelle terre dei più deboli il lamento ci incoraggia a non perdere la voglia di cercare dei colpevoli di trovare responsabili dei nostri fallimenti… (la punteggiatura è mia).

Versi incontrovertibili e universali. Sfidiamo chiunque a non considerarli sacrosanti nella loro amara verità.

 

Ecco, diciamo che il disco appare un completamento del libro, addirittura una sua spiegazione, una sua sintesi, una sua interpretazione possibile; qui però ritroviamo quello spirito, quel guizzo perenne, quello scatto del cantautore che fa della musica lo strumento per eccellenza dell’artista calabrese.

Intendiamoci: Peppe Voltarelli scrive bene e ci piace, ma è come se con la scrittura riuscisse ad esprimere solo una parte del sé. Molto più autobiografico ci appare questo album, soprattutto nella linea musicale che in qualche modo sintetizza e armonizza quella dei primi due dischi: Distratto ma però e Ultima notte a Malà strana, quindi canzone d’autore e vocazione musicale folk. Dodici canzoni, per la maggioranza in italiano a differenza dell’album precedente che vinse la Targa Tenco come miglior disco in dialetto; collaborazioni d’eccellenza e decisamente adeguate: Otello Profazio, Riccardo Tesi, il Canzoniere grecanico salentino.

 

Voltarelli canta in maniera ‘composta’, più matura potremmo dire, anche se lo invitiamo – nel prossimo disco – a non nascondere ulteriormente la grinta e la potenza della voce che spesso nella sua musica fa davvero la differenza.

 

Particolarmente toccante e apprezzato da chi scrive il brano in dialetto Tu volissi ridere, nel quale il cantautore calabrese è accompagnato al pianoforte da Tiziano Borghi; coinvolgente l’arrangiamento di Pipa (Voltarelli voce e chitarra classica, Finaz chitarra elettrica e keyboards, Paolo Baglioni batteria, Marco Bechi basso e l’artista argentino Kevin Johansen voce parlata).

 

Abbiamo ritrovato sulla strada all’improvviso Peppe Voltarelli ascoltando poi il testo de Il martello, ma…

non ve lo raccontiamo:

i dischi non si raccontano; i dischi si ascoltano, così come i libri si leggono.

 

Per farlo bisogna andare a comprarli.

 

Affrettatevi: ne vale la pena!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Vota l'articolo!

Piano Solo – Marcello Parrilli

E’ dolce è resistere in questo mare di Sanremo