Romanesco e romanzato, cantautore e bluesman Luca Bocchetti, verace che però sceglie una strada pop quanto meno per la scelta di certi suoni e forme da dare alle sue nuove canzoni che troviamo racchiuse dentro questo Ep digitale dal titolo “Vado mo’?” – certamente un titolo romanesco – interamente realizzato da solo, con un Tascam multitraccia, al chiuso della sua camera e con la finalizzazione in studio con Lucio Vaccaro. Nostalgia, amore eterno, piccole cose di casa e il grande Tevere ad aprire le danze. Che poi tra le pieghe di un sorriso c’è anche del retrogusto sociale. Di sicuro c’è tanto da dirsi e noi raccogliamo le sue parole…
Il cantautore oggi. Figura che oggi significa rivoluzione, resistenza o semplice folklore?
Se per cantautore intendiamo il rompicoglioni che strimpella a malapena la chitarra e appesta gli ascoltatori con banalità amorose patetiche o denunce sociali da bar, direi che si tratta di vanità. Se invece parliamo di chi scrive, registra e produce la propria musica con onestà, senza vincoli e autocompiacimento, allora parliamo di guerriglieri, di soldati fantasma come il giapponese Nakamura. Gente che ha perso una guerra finita da anni ma che non vuole saperne di arrendersi.
Tantissimo suono oggi è contaminato di elettronica. Il tuo “blues” proviene (o dovrebbe provenire) dall’anima… due mondi distanti: tu come li raccordi assieme?
Tutta la musica dovrebbe provenire dall’anima, qualunque cosa essa sia. Io preferisco parlare di un sentimento che viene filtrato e modellato dalla testa. Lo strumento è un mezzo fisico, e l’elettronica è uno strumento come un altro. Non vedo incompatibilità tra una chitarra e un processore, se entrambi finiscono nelle mani di qualcuno che ha la sensibilità per combinarli e sente la necessità di farlo. Detto questo, non mi reputo uno sperimentatore o un avanguardista perché ho poggiato un riff su un synth e una drum-machine (sai che innovazione). Non sono un virtuoso, né un artigiano, sono uno che trova oggetti curiosi per strada e li assembla come può per dar loro un significato.
“Vado mo’?” arriva dalla strada, dalla vita di tutti i giorni. Dunque secondo te si può ancora raccontare la vita pensando a quello che abbiamo attorno? Te lo chiedo perché sembra che troppo spesso la canzone debba raccontare di eccessi…
La prima regola di ogni narratore è quella di scrivere di ciò che si conosce. Oggi più che mai – ed è qualcosa su cui hanno riflettuto poeti morti più di duecento anni fa – il fantastico e lo straordinario sono i temi di chi si limita a intrattenere. Io preferisco di gran lunga l’immaginazione, intesa come la capacità di combinare elementi reali per raccontare qualcosa di vero. L’iperbole e l’eccesso sono grandissimi strumenti narrativi, ma riguardano lo stile più che il contenuto. Magari, se conducessi una vita fatta di promiscuità sessuale, stupefacenti, crimine e sbronze, scriverei di quello, non lo so. Genio e sregolatezza mi sembrano un cliché romantico che non ha alcun legame con la qualità di un lavoro, altrimenti, ad esempio, ogni alcoolista potrebbe scrivere come Edgar Allan Poe. E io, sotto LSD, potrei suonare come Hendrix.
Il suono di questo disco: una produzione autonoma, indipendente. Che messaggio custodisce? L’intenzione di lavorare così ha motivi economici, tecnici o ci sono dimensioni filosofiche che vanno oltre?
A differenza di quello che mi succedeva con I Santi Bevitori, autoproduzione e indipendenza stavolta sono stati una scelta. Per qualche tempo mi sono confrontato con un paio di etichette che erano interessate a produrre l’EP. Avrei dovuto smontarlo in singoli , entrare in studio e affidare il tutto ad altri addetti ai lavori, ma ho capito che non era il percorso giusto per me in questo momento. Così ho perseverato per la mia scomodissima strada. Anche da solo avevo i mezzi e le economie per registrare in maniera canonica, ma non era quello che volevo. Ho allestito il mio spazio con pochi strumenti indispensabili e ho affidato il materiale grezzo al missaggio e alla masterizzazione di Lucio Vaccaro, uno straordinario talento fraterno. Per me è una dichiarazione di guerra al consumatore musicale, al mercato e a tutto quello che nel settore viene identificato con il successo. Come dicevo è una guerra già persa e, proprio per questo, mi sembra l’unica degna di essere combattuta.
E oggi per te questo disco che responsabilità si prende? Che cosa significa per te come artista e cantautore?
Contro ogni logica e ragionevolezza, questo è un disco che si mette in disparte da solo. Ne sono pienamente consapevole. È una specie di salmone che si sfascia controcorrente per andare a morire alla sorgente; non è una cosa fatta per stupidità, ma solo per poter deporre le uova nel posto più adatto. È un sacrificio, ma è anche attitudine naturale. Il mare musicale è già pieno di altri pesci.
Luca Bocchetti e la nuova normalità dei linguaggi. “Vado mo’?” ci sembra un disco anacronistico, antico nei modi, classico e suonato di mestiere. Tutte cose passate alla storia ormai… o forse no. Come la vedi?
A livello personale, è un disco anacronistico perché forse avrei dovuto registrarlo dieci o quindici anni fa. In senso generale, essere antichi e classici lo reputo un complimento. T. S. Eliot, forse il più grande poeta del ‘900, diceva che in arte la ricerca del nuovo in quanto valore assoluto spesso porta solo alla scoperta della perversione. Mi sembra che in giro ci siano abbastanza perversioni musicali (certo, c’è anche tanta bellezza, non sono un vecchio conservatore e nostalgico), perciò, come il salmone di cui sopra, ho preferito tornare alla sorgente, dove esistono solo il musicista e i suoi strumenti. Quando suonavo con i Santi Bevitori, uno dei nostri più fedeli sostenitori si piazzava sempre in prima fila e gridava con entusiasmo “Daje, sòna!”. Ecco, è tutto lì, suono.