Nelson arrivava con un tempismo minaccioso: uscire a soli due anni di distanza da Psiche, che fu proclamato capolavoro dalla stampa, ma risultò deludente per molti fan, sembrava una sfida. Del resto, senza scomodare chi ritiene esaurita la vena ispiratrice di Conte, è pur vero che l’Astigiano non si prendeva così poco tempo per incidere un album dal 1992! E questo è un album di 15 brani originali, non certo un greatest hits con arrangiamenti dell’Orchestra sinfonica bulgara. Ma Nelson – che fa pensare al coraggioso ammiraglio e invece è l’amato cagnone ritratto in copertina – ha molti buoni elementi per onorare questa sfida. Per i primi venti secondi di ascolto, si ode un pianoforte che ricorda minacciosamente l’inizio di Psiche; ma niente paura: “Tra le tue braccia” non è un’altra stancante sonata lungo la quale Conte sparpaglia stupidaggini tipo ‘pallida lampada araba’… Nelson si apre anzi con una scarna canzone intimista: non proprio autobiografica – non sia mai! come sottolineato in conferenza stampa -, ma comunque densa della sua sensibilità poetica. Poi si passa subito a un tempo veloce, con sonorità che ci catapultano in pieno proibizionismo americano: “Jeeves” è l’icona letteraria del maggiordomo, una statuetta che non poteva mancare nel mondo contiano. Conte lo manovra tra aristocratici inglesi svogliati, entro un delizioso quadretto d’epoca; con un suggestivo giochetto metrico, Conte seguita a ripetere «Jeeves!»… e vorresti che la canzone andasse avanti così per altri dieci minuti. È proprio in un brano come questo, che l’avvocato ribadisce la propria capacità di coniugare, in modo unico, ottima musica e testi ingegnosi; il che sorprende, dopo tanti anni. E sorprende, in tutto il disco, la libertà interpretativa acquisita da Conte in decenni di concerti: la voce è bellissima, piena di colore e sempre dinamica, come una Topolino amaranto che sfreccia in campagna. Non c’è un genere-guida tra i brani di Nelson: la progredita ricerca musicale dell’autore tocca tutti i suoi must, e ogni tanto naviga anche in acque nuove. Non c’è nemmeno un’unica lingua (oltre all’italiano c’è lo spagnolo, il francese, il napoletano, l’inglese); ma vi sono molteplici storie (Nina, l’enfant prodige, la massaggiatrice, los amantes del mambo, Sarah…) legate dalla univoca capacità di suggestionare nell’arco di tre o quattro minuti. “Clown” è un vortice musicale di continui crescendo: ricorda “Max”, quando lascia la parola ai soli strumenti, che replicano a turno la stessa partitura. “C’est beau” è un brano esoterico e ipnotico: un duetto in francese fra Laura Conti e il bassista Jino Touche, che si muovono in sintonia su un motivo accattivante. Conte li segue in background: sussurra «Manitu!» e altre cose incomprensibili, ma interviene di rado – forse è lui a suonare la chitarra elettrica che scandisce il centro del brano! Portentosa “L’orchestrina” che affiora dai ricordi di gioventù dell’Astigiano: c’è pura tecnica cinematografica dentro questa canzone, che si sgroviglia in film e ovviamente in colonna sonora. L’orchestrina suona fino al mattino, mentre l’odalisca si spoglia un po’ per volta e nel buio a qualcuno scappa una puzzetta… E così via. È evidente che dietro i testi di Paolo Conte vi siano realtà (culture, società, epoche) alle quali sono sovente estranei sia lui sia gli ascoltatori; eppure persino nel suo testo più fantasioso sono sempre racchiusi elementi di forte connessione con la sensibilità comune, ai quali si deve il portentoso effetto dei suoi testi. Non lascia indifferenti nemmeno “Bodyguard for myself”: pezzo di chiusura andante, di cui convince persino l’inglese amatoriale di Paolo Conte. Ad alcuni Nelson potrà piacere anche molto, mentre altri vorranno rimarcare la distanza incolmbabile da Paris Milonga and company. Bruno Lauzi, che fu un autentico sostenitore di Conte in tempi non sospetti, sentenziava addirittura che dopo Aguaplano (1987) vi fosse il nulla, forse perché troppo legato alla prima fase dell’amico avvocato. Eppure, è soprattutto dopo Aguaplano che Paolo Conte ha allargato i confini del proprio pubblico, nel mondo e tra le nuove generazioni, continuando a sperimentare, a incidere e a esibirsi. Ai suoi lavori più recenti non manca un grande valore intrinseco; ma se proprio è necessario valutarlo in relazione alla produzione precedente, bisogna considerare anche che è fisiologica, nel corso di tutta una vita, la rivisitazione di sé. Come le ninfee di Monet, progressivamente deformate fino all’astratto, le canzoni di Paolo Conte sfumano, in un percorso di introspezione spontanea e coerente, che si eleva felicemente al di sopra di un mercato inasprito. Insomma, Nelson arriva al momento giusto, per chi ne comprende le pretese; e per Paolo Conte, «ride la stella Aldebaran e suona suona l’orchestrina un motivetto da ballar».