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Riflettere sulla Shoah con la Musica…

intervista al musicologo barese Raffaele Pellegrino, docente di Storia e Filosofia e traduttore, insieme a Francesca R. Recchia Luciani, del libro La musica a Terezín 1941-1945

Il 27 gennaio 1945, giornata che vide l’ingresso dei soldati dell’Armata Rossa nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, è per tutti noi opportunità di riflessione attorno alla singolarità storica della Shoah e al male radicale del nazismo.

Un inferno di violenza e di abiezione, indissolubilmente intrecciato con una perversa ideologia razzista ed imperialista, che ha ridotto gli uomini ad esseri antiquati, scafati, cadaverici: questa è stata la tragedia dell’Olocausto. Da una parte si è infatti assistito al totale e massificante livellamento di ogni pensiero in nome di un paranoico super-senso2; dall’altra gli internati nei campi di concentramento hanno patito sulla loro stessa pelle ciò che il filosofo lituano Emmanuel Lévinas definisce l’ être rivé3, cioè l’incatenamento, l’essere inchiodati in maniera svilente a sé con la consequenziale uccisione della grande specificità umana: la libertà.

Ebbene, noi oggi – lungi dallo scadere in una melensa retorica della memoria o in una vuota ridondanza emotiva4 – abbiamo pensato di porre alcune domande al musicologo barese Raffaele Pellegrino, docente di Storia e Filosofia e traduttore, insieme a Francesca R. Recchia Luciani, del libro La musica a Terezín 1941-1945 (a cura di F. R. Recchia Luciani, Il Nuovo Melangolo, 2011) di Joža Karas. L’idea è quella di riflettere in maniera inedita sul crimine inaudito della Shoah a partire dalla musica, attraverso la musica e grazie alla musica.

Consapevoli di compiere uno strappo alla regola nel format di “Bravo!” e di trascendere così i nostrani limiti della musica d’autore, diamo avvio alla nostra intervista:

1) Iniziamo prendendo le mosse da una domanda più ampia e generale: qual era il rapporto del nazismo con la musica?

Il fatto stesso che si possa parlare di un rapporto tra musica e nazismo rivela la complessità dello stesso…è possibile rileggere questo rapporto attraverso due binari: il primo percorre il nazismo fuori dal filo spinato attraverso il divieto e l’emarginazione di tutta la musica non ariana, considerata “degenerata”, e per musica intendo musicisti, concerti, repertori e fabbricanti di strumenti di “razza inferiore”; il secondo binario percorre l’intricata dimensione del campo di concentramento, luogo in cui la musica era parte integrante della quotidianità. In quasi tutti i campi di concentramento la dimensione musicale rivestiva un ruolo ‘”ambiguo e dolente”, per usare l’efficace espressione della filosofa Francesca Romana Recchia Luciani.

2) Tu, negli ultimi anni, ti sei occupato molto del ghetto di Terezín: puoi spiegarci in cosa consisteva l’ “eccentricità” di questo ghetto?

Terezín doveva rappresentare il campo “modello”, cioè un formidabile strumento di propaganda che avrebbe dovuto ingannare la Croce Rossa internazionale, come poi effettivamente avvenne, circa le condizioni di vita degli ebrei nei lager. Terezín accolse infatti l’”intellighenzia” ebraica del tempo: artisti, pittori, musicisti, attori, registi, disegnatori, intellettuali, che con la loro “presenza” avrebbero dovuto testimoniare la “bontà” dell’istituzione del campo di concentramento. I musicisti, come tutti gli altri prigionieri, erano in primis ebrei agli occhi dei nazisti e pativano come tutti gli internati la fame, il sovraffollamento, le malattie, costanti presenti in ogni lager. In più, nel “tempo libero” dal lavoro dovevano provare e suonare per le autorità tedesche.

3) Potresti farci qualche nome dei musicisti che sono stati qui internati?

I musicisti sono davvero tanti, sarebbe doveroso ma allo stesso tempo impossibile citarli tutti. Di sicuro, sebbene parliamo di musica indotta, obbligata, violentata dai nazisti per soddisfare la loro perversa passione verso l’arte, per tutti i musicisti la musica rappresentava un sospiro di speranza nell’inferno concentrazionario. Penso al pianista Gideon Klein, al violinista Karel Frohlich, all’immortale pianista Alice Herz-Sommer ultracentenaria, al percussionista e chitarrista jazz Coco Schumann…e penso anche a tutti quegli ensemble corali presenti a Terezín. Un pensiero va poi a Viktor Ullmann, filosofo, musicologo, musicista di Terezin, le cui sonate per pianoforte e composizioni da camera, oltreché il suo capolavoro teatrale “L’imperatore di Atlantide”, anch’esso composto nel campo, rappresentano insuperabili lavori eterni nella storia dell’umanità.

4) Come si combacia l’inferno concentrazionario dei lager, il cui intento sostanziale era appunto quello di ridurre l’uomo allo stato di cosa, con il ghetto di Terezín e la musica, che dovrebbe piuttosto esprimere la nostra parte più libera e creativa? Non ti pare qualcosa di ossimorico?

Il violinista Karel Frohlich ben esprime questo ossimoro. Egli definisce ideale e reale la situazione di Terezín. Ideale perché all’avvicinarsi della visita della Croce Rossa le prove e i concerti si intensificarono, secondo una frequenza addirittura maggiore di quella che si verificava nella vita precedente alla deportazione; reale nella sua tragica perversa ambiguità: il pubblico per cui si suonava era un pubblico di morti, destinati da un momento all’altro alle camere a gas di Auschwitz, la stessa sorte che sarebbe toccata di lì a poco (con il convoglio del 16 ottobre 1944, direzione Auschwitz) a quasi tutti gli artisti lì internati.

5) Per ultimo un rimando all’oggi. Se c’è qualcosa che la Shoah dovrebbe averci insegnato è tenere sempre gli occhi ben aperti dinanzi alle forme contemporanee di totalitarismo5, specie quelle datedall’impero dell’applauso e dell’assenso: come vedi lo stato della musica nell’odierna “società dello spettacolo”? E c’è un valore che, secondo te, più di tutti essa dovrebbe attualmente esprimere?

Proprio la Shoah ci ha insegnato il valore più importante che la musica può e deve sempre preservare, un valore forse ancora più importante della vita: la dignità dell’essere umano. E nell’odierna società dello spettacolo, come l’hai giustamente definita tu, prevale tragicamente nella musica proprio il senso etimologico del termine spettacolo: desta attenzione ciò che colpisce lo sguardo. E spesso ciò che appare è l’illusorio conforto che cerchiamo in ciò che brilla per pochi attimi. Ecco, una cultura musicale che prima di tutto “ascolti” le proposte e i talenti delle giovani generazioni è il primo passo per restituire quella dignità di cui la musica era ed è sempre stata instancabile difensore.

Ringraziamo il Prof. Raffaele Pellegrino per la disponibilità e vi lasciamo con l’ascolto della Sonata n. 7 di Viktor Ullmann, l’ultima sua composizione prima di essere deportato ad Auschwitz il 16 ottobre 1944.

Gabriella Putignano

1 J. Karas, La musica a Terezín 1941-1945, p. 60, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2011.

 

2 Su questa reductio ad unum del pensiero indimenticabili le seguenti parole della filosofa Hannah Arendt: «La fine del mondo comune è destinata a prodursi quando esso viene visto sotto un unico aspetto e può mostrarsi in una sola prospettiva», in Vita activa, p. 43, Bompiani, Milano, 2008.

 

3 Cfr. E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata, 2012.

 

4 Cfr. C. Vercelli, Auschwitz senza anestesia, in Il manifesto del 25 gennaio 2014.

 

5 Cfr. AA.VV., Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.

Biografia di Gabriella Putignano

Gabriella Putignano (Bari, 1987) è docente di Filosofia e Storia nei licei. Tra le sue pubblicazioni: L’esistenza al bivio. La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter (Stamen, Roma 2015), Quel che resta di Raoul Vaneigem (Petite Plaisance, Pistoia 2016), Flash di poesia, dipinti di versi (Petite Plaisance, Pistoia 2019), nonché numerosi articoli su rivista e saggi brevi in volumi collettanei nei quali ha trattato il pensiero di Giuseppe Rensi, Aldo Capitini, Albert Camus, Henrik Ibsen, Mark Fisher, Franco “Bifo” Berardi, Arthur Schopenhauer. Ha, inoltre, curato i libri Cantautorato & Filosofia. Un (In)Canto possibile (Petite Plaisance, Pistoia 2017) e Filosofare dal basso (Sentieri Meridiani, Foggia 2015).

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