Sempre difficile infilarsi tra le parole di Samuele Bersani, trovare uno spazio per poter dire la tua. Come quando ti trovi di fronte a quelli che si parlano addosso, e tu ti limiti ad annuire col capo, perché non puoi far altro. Le sue rare, minuscole pause, non sono un segno di cedimento ma un fisiologico ricarico di ossigeno che non dà al diaframma nemmeno il tempo per riposarsi o l’opportunità di rimettersi al suo posto.
I dischi di Bersani sono un pò così.
Quando li infili dentro il lettore è un pò come quando apri il miscelatore dell’acqua della doccia, prima di infilartici dentro. Sai che ne verrai travolto.
E che dentro quel box doccia non potrai cantare. Non subito.
Memorizzare le canzoni del cantautore riminese non è come mandare a memoria quelle di Tiziano Ferro o Vasco Rossi.
Che sono i cantanti generazionali. Quelli dei messaggi universali, quelli buoni per tutti. Che tutti abbiamo avuto gli struggimenti d’amore e la voglia di pisciare sul mondo. Ed è facile cantare appresso ad uno che te lo ricorda.
Samuele Bersani non sa scrivere gli haiku. Lo uccidono. Il calcolo matematico applicato alla metrica poetica lo ridurrebbero in polvere.
E trova sempre una via di uscita alle emozioni che fanno male.
Come la maniglia della porta di Giudizi Universali.
Qui sono i luoghi del disgusto trasformati in centri wellness su Pesce d’Aprile, o le cacche dei cani disseminate lungo i marciapiedi di Bologna su Canzone d’Amore o ancora la rondine che fora l’arcobaleno estivo di Ferragosto e la cassetta difettosa di Battiato in quel tuffo nel nostro passato che è Lato Proibito e via così.
Dentro al disco c’è il solito via-vai di gente cui Samuele ci ha abituato. Lucio Dalla, Tayone, Pacifico, Angelo Conte, Ferruccio Spinetti, la VU Orchestra a dare il loro contributo a queste musiche sfuggevoli e spesso cangianti.
E’ un disco dall’umore opacizzato, come certi vetri sabbiati che spaccano in due le pareti rendendole meno forti di cemento, più trasparenti ma non del tutto sconfitte dalla luce. Un album con immagini vividissime eppure disegnate con colori tenui. Un disco da abat-jour, da domenica pomeriggio.
Manca il fascio di luce che macchia l’obiettivo, come poteva essere Cattiva su Caramella Smog o La soggettiva del pollo arrosto su L’aldiquà.
Si lavora su pochi contrasti, sulle stesse pareti di condensa che Bersani descrive in chiusura di Valzer nello spazio, su impercettibili cambi di umore, dentro i cortili dei nostri ricordi. Cercando di afferrare le parole che gli spruzzi della doccia provano ad inghiottire.
Condividi
Franco “Lys” Dimauro