A quanti mi dicono che amano De Andrè io chiedo sempre di canticchiarmi Dolce Luna. Perché so che rimarranno zitti.
Poi scavando, e nemmeno troppo in fondo, scopri che conoscono le solite dieci canzoni che tutti hanno sentito canticchiare. E me ne dolgo.
Perché De Andrè (allora lo si chiamava così, ora tutti lo chiamano Faber e di loro solo dieci ne conoscono il motivo, NdLYS) ha scritto pagine di un’intensità universale.
Non solo canzoni buone per i circoli libertari o per le adunate dei no-global.
Non solo un capolavoro di musica etnica come Creuza De Ma e nemmeno una parodia della musica partenopea conosciuta, quella si universalmente, e le cui versioni da karaoke ne hanno totalmente fatto evaporare l’alto contenuto di denuncia che invece la riempiva come un babà napoletano.
Fabrizio ha suonato davvero di tutto, nella sua lunga carriera.
Musica di protesta, chanson francese, musica medievale e sacra, ballate, blues, filastrocche, Dylan, Leonard Cohen, musica brasiliana, yodel, canzoni da bettola e da bordello, pezzi satirici, canzoni d’ amore, ha parlato di Cristo, di Fellini, di Tenco, di Mussolini, di Lee Masters, di Fernanda Pivano, di Dante, di Pasolini e dell’assenza di Dio.
E ha cantato del suicidio di Michele Ajello e della mignotta Liliana Tasso ai pinguini imbalsamati che sorbivano i drink all’ananas sulle navi da crociera che solcavano gli oceani degli anni del boom economico.
Volume 8 fotografa un momento particolare della vita dell’artista genovese.
Ci sono stati gli anni dello schieramento politico. Forte, audace, sfrontato.
Ha cantato delle istanze libertarie e del Maggio francese su un disco impegnato come Storia di un impiegato che gli ha procurato tante antipatie. Il SISDE lo controlla a vista, ritenendolo una cellula pericolosa del brigatismo rosso e dei gruppi eversivi di estrema sinistra e ora avverte forte il bisogno di parlare di sé.
E’ una ricerca introspettiva che passa attraverso una nuova immersione nella tradizione cantautorale americana e francese, per mezzo degli artisti da lui a lungo corteggiati: Bob Dylan, Georges Brassens, Leo Ferrè, Leonard Cohen, Jacques Brèl.
A questo disco Fabrizio affida la sua canzone più amata: Amico Fragile.
Uno dei pochi autoritratti che De Andrè si dedica nella sua lunga galleria di dipinti, sospeso musicalmente su un ricamo chitarristico onirico, sospeso, inquieto e liricamente carico di immagini suggestive e profonde come una ferita.
Altrettanto satura di ermetismo straziante è Giugno ’73 con questi ectoplasmi di violini e tastiere che planano su una tela struggente di chitarre acustiche dall’andamento da marcia funebre.
Saranno gli ultimi pezzi che De Andrè scriverà completamente da solo.
Il suo dolore è un masso di piombo che potrebbe essergli fatale.
E cercherà di evitare la solitudine, sin da subito.
Le restanti tracce sono infatti moderate dalla presenza di De Gregori.
Oceano è, a tutti gli effetti, una Alice parte seconda e ha per protagonista il figlio di Fabrizio.
Le storie di ieri è una canzone sullo schianto dell’ideale fascista, scritta e pubblicata da De Gregori quasi contemporaneamente sul suo album Rimmel.
Molti anni dopo pubblicherà per conto proprio pure Canzone per l’Estate, altro pezzo dove la sua impronta stilistica (soprattutto sull’uso improprio della metrica) è determinante, come del resto è opportuno dire per Dolce Luna.
La cattiva strada sfrutta una figura retorica molto cara alla poetica di De Andrè che è quella del racconto “in progress”, creata per immagini progressive sottolineate da un incedere a fotogramma simile a quello delle illustrazioni dei cantastorie (una tecnica adottata tra l’altro per alcune delle sue canzoni più celebri come La guerra di Piero, Bocca di Rosa, Il pescatore, Al ballo mascherato).
Nancy è l’ennesimo omaggio a Cohen, artista ombroso che Fabrizio sente affine alla sua sensibilità, al suo modo doloroso di raccontare delle sconfitte umane, a certi analoghi scorci di angoscia che anche lui dipinge spesso con lo stesso tono esangue, abbandonato a questo fascino quasi voyeuristico per le figure che si muovono ai margini della società perbene da cui entrambi appartengono.
Volume 8 è uno dei pochi dischi di De Andrè ad essere orfano di logiche concettuali univoche e di elaborazioni congetturali di natura teologica, politica, sociale o poetica.
Nasce invece dal bisogno di ritrovare se stesso, di ritrovare il senso di nudità artistica e il canale di valutazione introspettiva al proprio ritratto e dalla necessità di condivisione umana e artistica che accompagnerà De Andrè fino agli ultimi giorni della sua vita. Non banalizziamone la memoria, per favore.
Franco “Lys” Dimauro