Nell’attimo stesso in cui, per la prima volta, ho sentito la voce di Patrick Watson è stato amore al primo ascolto. Pochi minuti dopo ero davanti al monitor del mio computer per cercare di assimilarne il più possibile.
Ciò che per primo cattura chi lo ascolta è proprio la sua voce, soffice e fluente, che ad un primo incontro non può non richiamare quella del compianto Jeff Buckley e l’altra di Nick Drake, celebre per il capolavoro di Pink Moon.
Ma sono connubi solo superficiali perchè la voce di Watson è uno strumento usato in maniera decisamente diversa, il suo è un tono quasi “angelico” affinato fin da piccolo, quando a sette anni, dopo essersi trasferito dalla California (suo paese nativo) cominciava a cantare nelle chiese locali della cittadina di Hudson nel suo nuovo paese adottivo, nella zona ovest di Montreal, in Canada.
Successivamente cresce artisticamente, studiando pianoforte classico e jazz contemporaneamente ad arrangiamento e composizione, sono gli anni in cui comincia ad affinare gli strumenti che lo completeranno artisticamente.
Watson, ancora adolescente, incontra il chitarrista Simon Angell che lo accompagnerà fino ad oggi. Angell è il musicista ideale che lo aiuterà a sviluppare un complemento perfetto di composizioni melodiche e colorate incorniciate dalla caratteristica voce in falsetto di Patrick.
Verso la fine degli anni novanta, durante gli studi musicali presso il Vanier College i due incontrano Mishka Stein (basso) e Robbie Kuster (batteria e percussioni), che da quel momento cominciano ad essere invitati a completare la sezione ritmica durante l’esecuzione di spettacoli dal vivo. Tra i quattro musicisti prende forma una chimica particolare, e le loro prime esibizioni al Caffè Sarajevo fanno crescere rapidamente un gruppo di fan e sostenitori che si passano le notizie sul gruppo di bocca in bocca.

Patrick Watson
La musica di Patrick Watson e la sua band comincia a prender forma, ha sfumature visionarie, delicata, irruenta ed eclettica al tempo stesso. Nelle loro canzoni si uniscono pop delicato e atmosfere eteree suonate con un senso minimalista della composizione. La voce romantica di Watson svetta sulle le chitarre di Simon Angell e sulle melodie orchestrate da un piano estremamente preciso suonato sempre dallo stesso Watson. La sezione ritmica fantasiosa ed originale è sostenuta da Robbie Kuster e vivacemente eseguita su rullanti di batteria, marimba pentole e pentolini capovolti, il tutto ben plasmato dal basso di Mishka Stein.
Il 2003 è l’anno della prima vera incisione; “Just Another Ordinary Day”, un disco autoprodotto e corredato da una copertina con un opera di Brigitte Henry. Si tratta di una suite di brani ispirati proprio da una serie di fotografie dell’artista canadese, lo stesso che li affiancherà artisticamente fino a dirigere per loro il video di Close to Paradise nel 2007. “Just Another Ordinary Day” è un disco forse troppo sperimentale, un istantanea di una band in fase di formazione, dove tuttavia si comincia ad avvertire il sound ispirato dettato da un grande giovane artista.
Il disco della svolta arriva invece tre anni dopo, si chiama Close to Paradise (2006), ed è l’album che l’anno successivo gli vale il Polaris Music Prize e una nomination come “New Artist of the Year” al Juno Awards.
Close to Paradise
Close to Paradise ad un primo ascolto appare un album molto rilassato e rilassante, privo, quasi del tutto di venature rock. In “Luscious Life”, che è senza dubbio il pezzo più riuscito dell’album insieme a “The Storm” l’arte di Watson prende forma e sostanza.
In complesso siamo davanti ad un disco molto originale, suonato ed orchestrato in maniera interessante condito da numerosi effetti e distorsioni senza mai ricorrere all’uso dell’elettronica. Ogni brano è una piccola opera musicale ben eseguita, 13 perle messe in fila che vanno a comporre un piccolo gioiello.
Mentre scrivo ascolto invece l’ultima fatica di Patrick e il suo gruppo “Wooden Arms” (Braccia di legno) uscito nel 2009. E’ decisamente un album interessante che riprende e oltrepassa i confini marcati da Close to Paradise. I brani non sono più dei nuclei separati l’uno dall’altro. Siamo davanti ad un opera ancora più ariosa e visionaria. musica che evoca immagini eteree ed oniriche al di fuori di qualsiasi concezione urbana moderna. La title track, Wooden Arms, è la colonna sonora perfetta di un film muto anni ’40, con l’orchestra che suona mentre un personaggio cade, macchine che producono il rumore del vento (Theremin). Seghe suonate come violini. E la title track ben rappresenta tutto il resto dell’album, un disco dove il pianoforte diventa lo spirito guida facendo muovere per magia una serie di strumenti a percussione non convenzionali (bottiglie, vasi, rami, parti di bicicletta …) suoni e rumori che occupano una parte importante di composizioni narrate con un animo malinconico. Uno degli album più belli dell’anno.
In questi video, è possibile vedere una serie di 4 clip registrate per la blogotheque,
La videocronaca di una giornata in giro per parigi, mentre Patrick ed il suo gruppo suonano in location urbane improvvisate; nella metro, davanti a locali storici parigini (Le Folies Bergère), parchi pubblici, fino a sera quando partecipano ad un “concerto tascabile” in casa di amici. Il tutto tra passanti incuriositi, ragazze passanti che sembrano dipinti del ‘400 e vigili urbani che per poco non li multano. E’ il modo migliore per apprezzare l’arte di Patrick Wilson e la sua band!